IL TRIBUNALE Letti gli atti del proc. n. R.G.P. a carico di Paciullo Roberto, imp. del reato p. e p. dagli articoli 594 e 635 c.p.; Udite le parti; Ritenuto in fatto Il presente procedimento ha subito piu' rinvii a causa dell'astensione collettiva dei difensori dalle udienze che (preceduta da altra indetta per il mese di maggio 1999) si protrae ininterrottamente dal luglio 1999 ed e' destinata a durare - salvo proroghe - fino al 10 marzo 2000. La stato di agitazione, determinato dalla mancata copertura integrale dei magistrati di questo tribunale e comunque dall'insufficienza dell'organico astrattamente previsto, e' stato invocato dal difensore dell'imputato reiteratamente come legittimo motivo di impedimento a partecipare al dibattimento e comunque come causa di rinvio del giudizio. A seguito di rigetto delle richieste da parte del giudice per i motivi indicati nelle ordinanze dibattimentali in atti, ed in particolare per la palese irragionevolezza della durata dell'astensione proclamata (oltre nove mesi, allo stato) il difensore ha ribadito la propria volonta' di non partecipare al dibattimento e tutti i sostituti immediatamente reperibili nominati ai sensi dell'art. 97 comma 4 c.p.p. (cfr. elenco) hanno dichiarato anche essi di aderire all'astensione rifiutandosi di svolgere la funzione attribuitagli, nonostante l'evidente prossimita' del termine prescrizionale. Sulla durata dell'astensione, ad ulteriore riprova della sua irragionevolezza, si osserva che con numerose delibere (cfr. ex plurimis la delibera del 1o luglio 1999) la commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ha ritenuto di durata irragionevole astensioni deliberate per periodi di gran lunga inferiori (la delibera predetta si riferiva ad un astensione di durata di "appena" ventiquattro giorni consecutivi). Si premette che aspetti sanzionatori delle condotte tenute collettivamente dagli appartenenti al foro esulano da quanto si rileva nel presente provvedimento, poiche' la configurazione di illeciti disciplinari o penali non sposta i termini della questione, che e' relativa esclusivamente agli strumenti processuali da adottare per consentire la celebrazione del giudizio, prescindendo da eventuali illiceita' ravvisabili nel comportamento dei difensori. Sotto tale profilo, peraltro, la stessa Corte costituzionale nella nota sent. n. 171/1996 escludeva la configurabilita' degli illeciti amministrativi previsti dalla legge medesima. La giurisprudenza di questo ufficio, inoltre, escludeva la sussistenza del reato p. e p. dall'art. 340 c.p. disponendo l'archiviazione dei procedimenti iniziati in fattispecie pregresse ed analoghe (per le astensioni indette per i mesi di novembre e dicembre 1998 e direttamente riferibili all'emissione della sent. n. 361/1998 della Corte costituzionale medesima) nelle quali la condotta dei difensori non si limitava ad una mera adesione all'astensione ma si sostanziava in un persistente rifiuto di svolgere le funzioni di cui agli artt. 97 comma 4 e 486 c.p.p. a seguito di ordinanza del giudice che respingeva la richiesta di rinvio per legittimo impedimento. Nemmeno, inoltre, sarebbero ravvisabili illeciti disciplinari ai sensi degli artt. 105 c.p.p. e 38, legge n. 36/1934, come si puo' desumere dai verbali delle sedute del 20 luglio 1999 e del 21 settembre 1999 del locale consiglio dell'ordine forense, atti che sono autorevole elemento interpretativo per individuare orientativamente la eventuale giurisprudenza disciplinare dell'organo consiliare il quale - manifestando ampio sostegno alle iniziative adottate dall'associazione promotrice delle astensioni e denominata assemblea generale degli avvocati di Latina - ha mostrato di non ritenere sussistenti profili di illiceita' disciplinare nelle condotte poste in essere dagli iscritti agli albi. Si ribadisce, comunque, che la configurabilita' di illeciti di tipo amministrativo, penale o disciplinare, non incide sulla questione che e' relativa solo alla mancanza di strumenti processuali per proseguire il giudizio ed alla successiva stasi procedimentale destinata a protrarsi per periodi sostanzialmente indefiniti, poiche' nemo ad factum cogi potest nonostante ogni ipotetica sanzione all'omissione perpetrata. Prima di affrontare il merito della questione di legittimita' costituzionale delle norme impugnate, si precisa ulteriormente che i comportamenti dedotti consistono nei rifiuto "a catena" da parte dei difensori immediatamente reperibili nello svolgere le funzioni di cui all'art. 97 comma 4 c.p.p. Tale circostanza si e' ripetuta con riferimento a tutti i difensori immediatamente e concretamente reperibili da parte del giudice (facendo uso di ogni diligenza) e per tutte le udienze di rinvio, costringendo sostanzialmente l'organo giudicante a differire di volta in volta la trattazione del giudizio per la materiale impossibilita' di procedervi in assenza di disponibilita' di tutti i difensori tenuti a svolgere le funzioni di cui all'art. 97 comma 4 c.p.p. ad adempiere l'ufficio conferitogii, a causa della loro manifestata e ribadita adesione alla predetta astensione dalla partecipazione alle udienze. Tali fatti, inoltre, sono relativi praticamente a tutti i giudizi penali pendenti innanzi agli organi giudiziari siti nel circondario di Latina ed in particolare a tutti i processi assegnati a questo giudice. In relazione al concetto di immediata reperibilita' di cui all'art. 97 comma 4 c.p.p., e' evidente che il legislatore ha voluto imporre l'altrettanto immediata prosecuzione dell'udienza nei casi in cui occorreva la presenza di un difensore e il titolare dell'ufficio era assente. L'immediata reperibilita', percio', svincola il giudice dai criteri di scelta, ulteriormente restrittivi rispetto alla sola iscrizione ad un albo degli avvocati, previsti dall'art. 29 disp. att. c.p.p. poiche' la scelta va ovviamente estesa non solo ai reperibili di turno indicati negli elenchi e nelle tabelle predisposte, ma in tutti i difensori concretamente ed effettivamente reperibili da parte dell'autorita'. Il requisito dell'immediatezza va interpretato nel senso che le ricerche, dovendo consentire la prosecuzione dell'udienza, non possono essere estese a tutti gli iscritti agli albi degli avvocati esercenti la professione, perche' la scelta deve essere effettuata al momento tra i presenti (o i raggiungibili con comunicazione mediante cancelleria che possano prontamente essere presenti), non potendosi ritenere che il giudice sia tenuto ad interpellare tutti gli avvocati astrattamente nominabili prima di rilevare la concreta impossibilita' di immediata prosecuzione dell'udienza. Si specifica, inoltre, che tutti gli iscritti ad albi diversi da quello del locale ordine forense di volta in volta nominati ai sensi dell'art. 97 comma 4 c.p.p. hanno aderito "per solidarieta'" all'astensione, vanificando in tal modo la possibilita' di ricorrere ad apporti forensi "esterni" per proseguire i procedimenti. Considerato in diritto La situazione venutasi a creare e' causata dalla mancanza di norme che disciplinino le procedure e misure consequenziali alla violazione dell'art. 2 legge n. 146/1990 come modificato dalla sentenza n. 171/1996 della Corte costituzionale, relativamente ai casi in cui le modalita' attuative dell'astensione, per l'assoluta generalita' delle adesioni e la mancanza di durata ragionevole del periodo di durata, rendano di fatto impossibile l'esercizio della giurisdizione anche qualora il giudice respinga la richiesta di rinvio, nomini un sostituto al difensore astenutosi e disponga procedersi oltre senza che cio' si verifichi per la successiva astensione "a catena" di tutti i difensori designati. Nella nota pronuncia citata la Corte costituzionale ritenne che l'astensione degli avvocati da ogni attivita' defensionale non rientrava compiutamente, per la sua morfologia, nei meccanismi procedurali previsti dagli artt. 8, 9, 10, 12, 13 e 14 della legge n. 146, e lascio' al legislatore il compito di definire in modo organico le misure atte a realizzare l'equilibrata tutela dei beni coinvolti, essendole preclusa l'individuazione nel dettaglio delle soluzioni. Tale decisione, peraltro, evidenziava di per se' reiteratamente la necessita' di impedire casi quali quello oggi sottoposto al vaglio del giudice delle leggi, ossia la assoluta impossibilita' di trattare il dibattimento per periodi di tempo di durata tale da risultare ictu oculi irragionevoli, sia se raffrontati con i periodi di astensione dalle prestazioni lavorative in altri settori dei servizi pubblici essenziali (quali la sanita', la protezione civile, l'ordine e la sicurezza e i trasporti), sia se paragonati alla durata media di astensioni dall'attivita' lavorativa nello specifico settore della giustizia, come per gli scioperi del personale amministrativo giudiziario (che non risulta abbiano mai avuto durate eccedenti la settimana). Non e' necessario profondersi in particolari osservazioni per giustificare l'asserzione che la paralisi determinata costituisce una forma sostanziale di diniego di giustizia e aggrava i problemi che vorrebbe risolvere (ossia l'eccessiva durata dei procedimenti per la mancanza dei magistrati asseritamente reputati necessari), divenendo essa stessa ulteriore motivo di allungamento dei tempi ordinari alla trattazione dei procedimenti, perche' nel presente giudizio tutti i rinvii del dibattimento sono stati determinati esclusivamente dall'astensione dei difensori dalle udienze. La causa determinante del blocco dell'attivita' giudiziaria, per le modalita' attuative dell'astensione, va individuata nell'obbligo per il giudice di trattare il dibattimento, anche nei casi in cui sia materialmente impossibile di avvalersi di un iscritto agli albi per l'adesione di tutti i soggetti reperiti (anche con diligenti e prolungate ricerche), inclusi gli iscritti ad albi professionali diversi da quello locale che aderiscono all'astensione per solidarieta' e non prendono parte comunque all'attivita' processuale. Il problema si pone in maniera ancora piu' rilevante se non possa procedersi nonostante l'espressa richiesta dell'imputato per indisponibilita' degli stessi nominati a svolgere - comunque - le funzioni conferite. Per i predetti motivi la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale delle norme che si indicheranno e' evidente, non potendosi procedere per un periodo di tempo potenzialmente illimitato al giudizio in assenza di difensore, poiche' l'astensione e' stata piu' volte prorogata (il 18 settembre ed il 27 novembre 1999) ed e' suscettibile di ulteriori proroghe legate essenzialmente allo stato dell'organico dei magistrati di questo tribunale, reputato comunque attualmente insufficiente dagli organi che hanno indetto l'astensione, con la conseguenza che anche provvedimenti di totale copertura della pianta organica potrebbero essere non ritenuti idonei per revocare o non prorogare l'agitazione proclamata. La rilevanza della questione va ribadita con riferimento alla materiale ed assoluta impossibilita' di trattare il giudizio nonostante l'applicazione delle norme che prevedono la nomina del sostituto del difensore astenutosi dal partecipare all'udienza, per la totale adesione di tutti gli interpellati reperiti con ogni possibile sforzo organizzativo, nonche' per il reiterarsi di detta situazione con riferimento a tutte le udienze trattate (la circostanza e' comune praticamente a tutti gli altri procedimenti pendenti innanzi all'ufficio sui quali si provvede separatamente per non trasferire l'integrale carico di lavoro del tribunale alla Corte costituzionale). Il primo profilo dedotto e' l'irragionevolezza delle norme impugnate per violazione dell'art. 3 Cost. Il disposto degli artt. 97 comma 4, 105 comma 5 e 484 c.p.p. presenta sul punto profili di illegittimita' costituzionale che non sono manifestamente infondati in relazione alla parte in cui non consentono di procedere in assenza del difensore nei casi in cui tutti gli iscritti agli albi degli avvocati immediatamente reperibili rifiutino senza legittimo motivo di assumere e svolgere le funzioni di sostituto del difensore che non partecipi al dibattimento in assenza dei presupposti di cui all'art. 486 comma 5 c.p.p. Non sono ostative all'accoglimento della questione osservazioni relative all'impossibilita' dell'autodifesa nel processo penale in base all'art. 24 Cost., poiche' la nota giurisprudenza della Corte costituzionale che ha sempre escluso il ricorso all'autodifesa non e' relativa a ipotesi quali quella in esame, essendo principalmente originata da particolari vicende sorte in contesti storici differenti e riguardando in massima parte procedimenti che si svolgevano sotto la vigenza del precedente codice di procedura penale. L'interpretazione delle norme, infatti, non e' immutabile ma e' determinata dal contesto storico ed istituzionale nel quale si opera fermi restando i principi assoluti e fondamentali di tutela dei diritti umani. Se si esamina l'attuale sistema processuale penale e l'insieme di provvedimenti legislativi in vigore e di prossima vigenza raffrontandolo con il complesso delle norme processuali penali internazionali o con quelle interne di altri Stati si osserva, come autorevole dottrina fa rilevare, che l'impossibilita' di trattare il dibattimento in assenza del difensore per collettiva astensione di tutti i designati all'ufficio di sostituto e' un unicum dell'ordinamento italiano. Tale distorsione deriva in primo luogo dall'iperfetazione di garanzie processuali a discapito dell'efficienza del giudizio, perche' - nell'adottare il sistema processuale accusatorio - il legislatore invece di sostituire le garanzie difensive previste nel sistema processuale inquisitorio con altre diverse e piu' adeguate al nuovo ruolo delle parti ha mantenuto le precedenti garanzie processuali sommandole alle ulteriori e nuove garanzie derivanti, di per se', da un sistema che riconosce una posizione dibattimentale delle parti assolutamente paritaria. Se si considera, invece, che un organo giurisdizionale di competenza mondiale come la costituenda Corte penale internazionale per i crimini contro l'umanita' (cfr. legge n. 232/1999), dotata tra l'altro di giurisdizione diretta anche per reati che spetterebbero al giudice penale ordinario nazionale, nel disciplinare con il proprio statuto il giudizio di merito di primo grado si e' limitata a prevedere la mera facoltativita' della presenza del difensore, si comprende che il riconoscimento universale del diritto della difesa significa garantire all'imputato la facolta' effettiva di difendersi - direttamente o con l'assistenza di un tecnico del diritto - piuttosto che imporre l'obbligo di difendersi avvalendosi di simulacri processuali quali quello del difensore di ufficio. Che l'interpretazione dell'obbligo della presenza del difensore in dibattimento renda un omaggio meramente formale a un asserito precetto contenuto implicitamente e asseritamente (si sottolinea) nella Costituzione, e' evidente dall'atteggiamento dello stesso legislatore delegante che all'art. 2 dir. 105 l. del c.p.p. ha prescritto al legislatore delegato all'emissione del codice di procedura penale di disciplinare l'istituto della difesa di ufficio in base a criteri che ne garantissero l'effettivita', con cio' evidenziando la natura meramente formale che l'istituto aveva assunto (a Costituzione repubblicana vigente dal oltre quaranta anni). Cio' che la legge, invece, deve riconoscere e' l'effettiva possibilita' di difendersi in giudizio, il che non necessariamente presuppone che l'unico strumento sia l'obbligatoria presenza del difensore (anche nel nostro ordinamento, peraltro, nei delicati procedimenti de libertate come quello di cui all'art. 309 c.p.p. e nello stesso dibattimento pubblico davanti alla Corte suprema di cassazione la presenza del difensore e' facoltativa). Vanno evitati, invece, i casi di vero e proprio abuso del diritto (gia' espressamente menzionato dall'art. 17 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848 e ritenuta pacificamente "costituzionalizzata", nonche' implicitamente riconosciuto come illecito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza 22 ottobre 1996, n. 353), quali quelli in cui l'ordine forense interpreti gli artt. 18 e 21 Cost. come contenenti il diritto di dedicarsi ad una attivita' - astensione collettiva dalle udienze - con modalita' tali da comportare la sospensione di altri diritti riconosciuti dalla Costituzione o una limitazione di tali diritti maggiore di quella prevista. Non e' ragionevole, percio', che il legislatore da un lato imponga la presenza del difensore in dibattimento e dall'altro non preveda alcuno strumento normativo processuale e ordinamentale per risolvere i casi in cui tutti i legittimati materialmente reperibili per lo svolgimento dell'attivita' difensiva necessitata si rifiutino di svolgere l'ufficio difensivo conferito, adducendo di aderire ad un'astensione collettiva dalle udienze che si sostanzia in una forma di abuso del diritto. Prima di esaminare specificamente gli aspetti di non manifesta infondatezza della questione si osserva come il dibattimento nel processo accusatorio non si fonda solo sul principio di parita' delle parti ma anche su quello di responsabilita' per le scelte compiute, essendo rimessa la stessa scelta del rito alla volonta' delle parti e (a decorrere dalla prossima entrata in vigore della riforma del rito processuale innanzi al giudice monocratico) con riferimento al giudizio abbreviato alla volonta' del solo imputato. Il processo, peraltro, conosce ipotesi di giudizi di merito dove la presenza del difensore e' meramente facoltativa, come nel caso dell'art. 447 c.p.p. nel quale il giudice valuta le prove e decide sulla responsabilita' dell'imputato anche in assenza del difensore che non compaia o si rifiuti di prendere parte all'udienza. L'impostazione ibrida del codice in tal caso emerge ancor maggiormente se si considera che nel giudizio di merito di primo grado di cui all'art. 447 c.p.p. l'udienza si svolge in assenza di pubblico (e quindi con minori garanzie), mentre il caso - sostanzialmente identico - nel quale le parti chiedano l'applicazione della pena in dibattimento ai sensi dell'art. 446 comma 1 c.p.p. prevede l'obbligatoria presenza del difensore, con impossibilita' di procedere a giudizio in per ipotesi come quella di cui si discute di astensione collettiva a "catena" dei difensori, anche se di per se' l'udienza pubblica garantisce maggiormente l'imputato. L'irragionevolezza dell'obbligatoria presenza in dibattimento del difensore dell'imputato emerge ancor maggiormente se si considera che anche nelle ipotesi sopra richiamate dei procedimenti de libertate e dell'udienza dibattimentale pubblica innanzi alla Corte suprema di cassazione la presenza del difensore e' facoltativa. E' evidente che il dibattimento di primo grado ha funzioni solo parzialmente comparabili con i predetti procedimenti ma cio' dimostra soltanto la maggiore irrazionalita' delle scelte legislativa, perche' i procedimenti de libertate ed il giudizio di legittimita' hanno frequentemente maggiore rilevanza del giudizio di merito, poiche' nei primi si discute con immediatezza della liberta' dell'imputato e nel secondo si adotta la decisione definitiva sul processo. Ulteriore profilo di illegittimita' delle disposizioni va ravvisata nel contrasto delle norme impugnate con gli artt. 10, 76 e 77 Cost.. in relazione al mancato adeguamento degli istituti del codice ai principi internazionali in materia di giusto processo come enucleati dagli artt. 6 e 17 della menzionata Convenzione europea dei diritti dell'uomo, richiamati anche dalla prima parte dell'art. 21 del c.p.p. Impedire la celebrazione del dibattimento anche in casi quali quello in esame significa non soltanto non garantire la ragionevole durata del processo, ma sancire la possibilita' istituzionale dell'abuso del diritto di associazione e manifestazione del pensiero attuata mediante le astensioni collettive "a catena" in violazione di disposizioni di pari rango costituzionale quali quelle che attraverso l'esercizio della giurisdizione tutelano la sicurezza e l'ordine della civile convivenza. Una diversa conclusione potrebbe condurre a ritenere che qualora l'intero ceto forense, in violazione dei provvedimenti giudiziali che impongono la partecipazione al giudizio, si rifiutasse di partecipare alle udienze dibattimentali per cio' solo queste non dovrebbero avere luogo, consentendosi in pratica un'eversione dell'ordinamento costituzionale tanto piu' grave non solo perche' priva di sanzioni di diritto sostanziale ma anche - circostanza ancor piu' grave - di strumenti processuali per porvi rimedio. Lo stesso legislatore, peraltro, e' ben consapevole della possibilita' di un uso strumentale degli istituti processuali poiche' all'art. 182 vieta di dedurre le nullita' di cui agli artt. 180 e 181 alle parti che vi hanno dato o hanno concorso a darvi causa. La norma non si riferisce all'ultima parte dell'art. 179 c.p.p., che sanziona con nullita' assoluta e insanabile la violazione delle norme relative all'assistenza del difensore nei casi in cui ne e' obbligatoria la presenza, proprio sulla base di una interpretazione non condivisibile dell'art. 24 Cost. che - come chiarito - vuole solo che all'imputato sia garantita l'effettiva possibilita' di difendersi ma non impone la obbligatoria presenza del difensore. Cio' e' tanto piu' vero per il dibattimento che si sostanzia in un udienza pubblica nella quale l'imputato ha piena conoscenza dell'accusa rivoltagli e degli atti processuali compiuti ed ha egli stesso la possibilita' di non comparire restando contumace. Il senso dell'obbligatoria presenza del difensore nel processo inquisitorio, infatti, era quello di assicurare un formale limite agli esorbitanti poteri dell'accusa garantendo che fosse comunque partecipe degli atti il difensore munito, a ben vedere, piu' di mere facolta' oratorie che di effettivi poteri processuali. Orbene, una volta che nel giudizio dibattimentale e' garantita l'assoluta parita' delle parti nei rispettivi ruoli e il diritto alla prova e' pieno anche per la difesa, non possono ritenersi conformi a giustizia le norme che, sbilanciando tale assetto, consentano il differimento sine die del dibattimento per l'impossibilita' di reperire i difensori disponibili ad esercitare i doveri e i poteri che la stessa legge gli impone anche quando il rifiuto di partecipare al giudizio derivi dall'abuso indicato dei diritti di associazione e manifestazione del pensiero e passi per la violazione dell'ordinanza del giudice che respinga la richiesta di cui all'art. 486 comma 5 c.p.p. e nomini il sostituto ai sensi dell'art. 97 comma 4 c.p.c. Tale situazione, consacrata dalle norme delle quali si rileva l'incostituzionalita', raggiunge l'apice del paradosso e produce effetti umilianti per l'ordinamento di uno Stato democratico quando provoca di per se' o concorre in maniera rilevante a provocare la prescrizione del reato. In tale caso la collettiva astensione in elusione dei provvedimenti giurisdizionali provoca il sorprendente risultato - nonostante i proclamati intenti di giustizia e di azione nell'interesse della collettivita' - di punire ulteriormente gli imputati riconosciuti innocenti all'esito del processo per la maggiore durata di quest'ultimo (che come ricorda autorevolissima dottrina spesso e' di per se' una sanzione) e di premiare gli imputati riconosciuti colpevoli nei cui confronti altro non puo' farsi se non dichiarare estinto il reato per prescrizione. Non puo' ritenersi conforme agli artt. 10, 76 e 77 della Costituzione in relazione ai piu' volte menzionati artt. 6 e 17 della convenzione europea dei diritti dell'uomo il combinato disposto degli artt. 97 comma 4, 105 comma 5 e 484 comma 2 c.p.p., nella parte in cui prevedono l'impossibilita' di proseguire il dibattimento in assenza del difensore anche quando cio' derivi dalla violazione collettiva dei difensori reperibili del provvedimento con il quale il giudice li nomina sostituti del difensore non illegittimamente impedito a partecipare al dibattimento, abusando in tal modo dei diritti di associazione e di manifestazione del pensiero. Ulteriori profili di incostituzionalita' derivano dalla violazione degli artt. 101 e 112 della Costituzione poiche' tale condotta, consentita dalle norme impugnate contrasta con il principio di soggezione del giudice alla sola legge, in quanto rimette l'esercizio della giurisdizione e l'esecuzione dell'ordinanza dibattimentale alla mera volonta' collettiva degli aderenti all'astensione ed impedisce l'esercizio dell'azione penale, provocando una stasi processuale virtualmente perenne e la cui rimozione e' rimessa esclusivamente alla volonta' dei partecipanti all'astensione. Sebbene sia indubbia la rilevanza che la Costituzione attribuisce agli avvocati, poiche' tra l'altro sono gli unici professionisti espressamente nominati come astrattamente qualificati per rivestire una molteplicita' di incarichi istituzionali (membro del consiglio superiore della magistratura o della Corte di cassazione ad es.), non puo' ritenersi che l'importanza del ruolo rivestito renda di per se' processualmente possibile e priva di conseguenze ogni condotta. Proprio l'attenzione particolare del costituente - invece - dovrebbe spingere gli interessati a svolgere i propri compiti professionali con particolare impegno e sempre nel superiore interesse della giustizia, fermo restando l'adempimento degli specifici vincoli derivanti dal rapporto con l'assistito. La condotta tenuta collettivamente in violazione dei provvedimenti giurisdizionali non si pone, pero', soltanto in contrasto con tali specifici e superiori doveri ma impedisce direttamente l'esercizio dei poteri giurisdizionali dell'autorita' giudiziaria requirente, alla quale e' impedito di procedere, e giudicante, alla quale e' impedito di decidere, con un ostacolo alla giustizia che non trova riscontro nell'operato di alcuna altra categoria professionale e che e' significativamente e deliberatamente ignorato dal legislatore ordinario, nonostante la notorieta' pluridecennale del problema e i pressanti inviti di intervento rivolti dalla stessa Corte costituzionale che, come gia' affermato, e' rimasta reiteratamente inascoltata. Non e' conforme agli artt. 101 e 112 Cost., pertanto, la legge che consente condotte tali da rimettere ad esse stesse la possibilita' di determinare l'operato dell'autorita' giudiziaria provocando stasi processuali che non possono trovare soluzioni diverse dallo spontaneo recesso di quanti vi hanno dato volontariamente causa. Conclusivamente, nel ribadire i rilevati profili di incostituzionalita', si precisa ulteriormente che la dedotta illegittimita' costituzionale e' relativa solo ed esclusivamente ai casi in cui sia impossibile l'utile applicazione degli artt. 97 comma 4 e 484 c.p.p. per collettiva, concorde e volontaria decisione di tutti i designati immediatamente reperibili di assumere e svolgere l'ufficio conferito adducendo quale impedimento - ritenuto di volta in volta illegittimo - l'adesione all'astensione dalle udienze.